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dalla scritta 360; cercavo di capire se era quello il nome della rivista a cui forse avrei
collaborato. Poi dal corridoio è arrivato un ragazzone dai capelli a piccole onde
crespe; lui e la ragazza si sono scambiati un'occhiata obliqua, lenta come i
movimenti e gli sguardi che avevo visto in strada. Poi lei gli ha porto una busta e
alcune cartelline colorate; mi ha detto: «La lascia giù lui al residence».
L'ho seguito in strada, dove c'era una grossa Alfa Romeo. Siamo saliti e lui è
partito di scatto, ha fatto ruggire il motore feroce nella via piena di gente a piedi.
Guidava come un pazzo, senza la minima considerazione per i passanti che si
dovevano scansare all'ultimo momento e facevano gesti furiosi, gridavano parole che
non riuscivo a sentire. Ho cercato di parlargli per distrarlo e farlo rallentare, ma
rispondeva alle mie domande senza smettere per un attimo di premere
sull'acceleratore. Mi ha detto che si chiamava Renato e faceva l'autista e la guardia
giurata; non sapeva niente della rivista, conosceva Polidori solo di nome.
Siamo usciti dalle vie strette della zona pedonale e abbiamo attraversato a
velocità ancora più folle una piazza, abbiamo imboccato un viale pieno di traffico
che costeggiava un fiume. Renato l'autista mi ha chiesto: «L'avevi già visto il
Tevere?», in tono leggermente derisorio.
Gli ho detto: «Certo che l'ho visto», con tutta la fermezza che potevo trovare.
Lui ha aperto il finestrino e ha appoggiato un lampeggiatore sul tetto e inserito
una sirena, si è messo a tagliare il traffico come un rompighiaccio dissennato.
Abbiamo seguito il Tevere per qualche chilometro, poi abbiamo preso uno svincolo e
attraversato un lunghissimo ponte bianco. Mi tenevo aggrappato alla maniglia di
sostegno, puntavo i piedi a ogni sterzata violenta. Dopo il ponte siamo andati su per
le curve di una strada in pendenza, finché Renato ha inchiodato davanti a un brutto
grosso edificio moderno con la scritta Residence-Hotel Grande Vue.
Ho detto: «Grazie tante»; sono entrato nella hall con lo stomaco rivoltato e la
testa che mi faceva male. L'impiegato dietro il bancone mi ha studiato con occhi
vischiosi prima di confermare che c'era una prenotazione a mio nome; attraverso le
porte a vetri ho visto Renato che manovrava selvaggiamente nel piazzale. Al sesto
piano non mi avevano prenotato una camera, ma un piccolo appartamento, composto
da una stanza da letto e un bagno e un soggiorno con cucina nascosta da
un'armadiatura. C'erano pentole e bicchieri e posate nella cucina nascosta, e il fatto
che non mancasse niente a una permanenza anche lunga accentuava la provvisorietà
anonima e triste dell'insieme, il finto stile americano. Ho scostato le tende sintetiche
pieghettate: anche con il buio si capiva che non c'era nessuna gran vista al di là di un
cortile di cemento. Ho provato a telefonare a Polidori, ma rispondeva la solita
segreteria che diceva Lasciate un messaggio. Ho lasciato un messaggio: «Sono a
Roma, tutto bene, fatti vivo», con una disinvoltura completamente simulata. Poi sono
andato avanti e indietro tra le mie due stanze, e mi sentivo lontano da qualunque
riferimento familiare, sospeso in un intreccio di circostanze casuali. Nell'aria c'erano
tracce sovrapposte di detergente per moquette e fumo di passati residenti e polvere
mai rimossa, e mi si mescolavano nella testa ai brutti sguardi ambigui di Renato
l'autista e della segretaria e del portiere.
Ho ripreso il telefono e fatto il numero di casa a Milano; avevo bisogno di sentire
Caterina, trovare solidarietà . Caterina ha risposto nel suo solito tono telefonico,
rigidetto come se ci fosse sempre qualcun altro ad ascoltare. Le ho raccontato l'arrivo
e la corsa in macchina in termini leggermente esagerati; il piccolo appartamento
peggio di com'era.
Lei ha detto: «Va be', tanto mica ci devi passare la vita». E per fortuna non
c'erano tracce leggibili di nostalgia nella sua voce: non sembrava nemmeno
particolarmente curiosa. In più stava mangiucchiando qualcosa, erano quasi le otto e
dovevo averla sorpresa a tavola. Questo ha avuto l'effetto di cancellare buona parte
del mio senso di abbandono; mi sono affrettato a salutarla. Ho fatto una doccia di
venti minuti, fermando l'acqua ogni tanto per paura di non sentire il telefono, poi mi
sono rivestito con abiti più leggeri. Ero divertito all'idea di essere a Roma: avevo
fame, e voglia di mettermi in circolazione, vedere la città . Nell'atrio ho spiegato al
portiere che uscivo a fare un giro, se qualcuno mi cercava sarei tornato per le dieci.
Lui ha chiesto: «E come lo fa il giro? A piedi?», con un sogghigno da vecchia
volpe di portineria che sa qualcosa di più dei suoi clienti ma non lo rivela gratis.
Gli ho detto: «Si, a piedi»; sono uscito.
Fuori l'aria aveva un odore quasi di campagna, non c'erano suoni né movimenti
né altri segni di vita cittadina. Ho camminato di buon passo per una strada in
pendenza, e non riuscivo a vedere una sola insegna illuminata. Mi ci sono voluti
dieci minuti per capire che ero in un quartiere residenziale arrampicato fuori dalla
città vera, fatto di edifici ex moderni con portoni di vetro e giardini condominiali,
cancellate dietro cui abbaiavano cani. La città vera doveva essere ai piedi della
collina e al di là del ponte che Renato l'autista mi aveva fatto attraversare a velocità
folle: sentivo il suo rumore di fondo mentre andavo a tentoni in discesa, ma era
chiaro che non c'era verso di arrivarci a piedi. Così sono tornato al residence, mezzo
morto di fame a questo punto. Il portiere ha ripetuto il suo sogghigno appena mi ha
rivisto, poi mi ha porto un modulo per messaggi.
Ha detto: «Per lei, dottore», con un'incuranza che rendeva caricaturale il titolo.
Sul modulo era scritto Dott. Polidori, richiama lui in serata. Il portiere spiava le mie
reazioni, anche se faceva finta di guardare un piccolo televisore appoggiato sul
bancone.
Gli ho chiesto se si poteva mangiare lì dentro; lui ha detto: «Come no», mi ha
indicato il percorso per il ristorante al piano di sotto. Così ho mangiato un piatto di
pasta molto unta e una pallida sogliola alla mugnaia, al centro di una sala enorme
dov'erano seduti solo un manager di medio-basso livello curvo sul suo piatto e due
coppie di americani anziani che cenavano a cappuccino. Le loro risa gracidate
riverberavano nello spazio vuoto, tra decine di tavoli e centinaia di sedie assiepati
forse in previsione di qualche gigantesco pranzo turistico o aziendale. Poi sono
tornato in camera. Ho ritelefonato a Polidori; c'era sempre la segreteria. Non ho [ Pobierz całość w formacie PDF ]

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